Cine, Literatura y Derecho. Università degli Studî Suor Orsola Benincasa, Facoltà di Giurisprudenza. CRIE – Imago Imperii. Archivio di iconologia politica*

Cinema Letteratura Diritto

Davanti
alla legge. Immaginare il diritto

 

Anno Accademico 2014/2015

Napoli, 20 ottobre – 10 dicembre 2014

 

La Facoltà di Giurisprudenza, con il sostegno
dell’Associazione Laureati Suor Orsola Benincasa, Sezione della Facoltà di
Giurisprudenza, promuove, per l’anno accademico 2014-2015, la nona edizione del
ciclo di incontri su Cinema Letteratura Diritto, che affiancano i corsi e
costituiscono parte integrante della formazione degli studenti.

Il ciclo ha per titolo Davanti alla legge. Immaginare
il diritto
.

Da un lato esso rimanda alla celebre parabola kafkiana
sulla necessità della legge (la porta aperta), sulla sua destinazione, sulla
sua forma e interpretazione; parabola nella quale Kafka riprende,
riscrivendola, una tradizione secolare che risale a Origene.

Dall’altro esso esprime con nettezza il rapporto visivo
che ci lega alla legge scritta, a quel valore di «monumento» che la
nostra e anche altre tradizioni le annettono: si sta dinanzi alla legge come
dinanzi a un’opera che ci chiama, c’interpella, (im)ponendosi in forma di
domanda, di interpretandum.

Il che rende ragione dell’immagine, insieme kafkiana e
cinematografica, del titolo: la legge come schermo, come oggetto di una veduta
(e di un’esposizione) frontale, di una visione collettiva, di una percezione
che non è appannaggio esclusivo dei tecnici del diritto.

Tra questi sguardi inusitati, la letteratura e il cinema,
entrambi discorsi pubblici, occupano un posto privilegiato. Nel caso della
letteratura, pressoché da sempre. Ecco, pensare il diritto e il suo limite,
non significa soltanto mettere in questione la pretesa del diritto di
giuridificare ogni ambito della vita, significa anche pensare il diritto a
partire da ciò che non ricade entro i suoi confini, da ciò che eccede i suoi
rassicuranti perimetri disciplinari, e attingere a una molteplicità di fonti,
di spunti, di angoli visuali. E saranno proprio questi, talvolta, a illustrarlo
con maggiore nettezza: una tragedia di Sofocle, un film di Billy Wilder, un
quadro di Edward Hopper.

«Sartre
ha scritto che «L’enfer c’est les autres».

Per Kafka si potrebbe dire: «L’enfer c’est moi»».

Antonio
Cassese, Kafka è stato con me tutta la vita, Bologna, il Mulino, 2014,
p. 32.

Lunedì 20 ottobre 2014

ore 16,00
Aula 1, Convento di Santa Lucia al
Monte, corso Vittorio Emanuele 334/ter

Il capitale umanodi P. Virzì (Italia-Francia,
2013)

Alfredo Guardiano

Mercoledì 29 ottobre 2014

ore 16,00
Sala degli Angeli, via Suor Orsola 10

Vincenzo
Malinconico, avvocato d’insuccesso

Diego De Silva

Martedì 4 novembre 2014

ore 16,00
Aula 1, Convento di Santa Lucia al
Monte, corso Vittorio Emanuele 334/ter

Margin Calldi J.C. Chandor (USA, 2011)

Riccardo Martina

Lunedì 10 novembre 2014

ore 16,00
Sala degli Angeli, via Suor Orsola 10

Maxmagnus e la corruzione amministrativa

Raffaele Cantone

Aldo Sandulli

Venerdì 21 novembre 2014

ore 18,00
Sala degli Angeli, via Suor Orsola 10

Ordinare o precipitarsi? Divagazioni sul
Rito, il Gioco e il Processo penale

Fabrizio Gifuni

Martedì 25 novembre 2014

ore 16,00
Aula 1, Convento di Santa Lucia al
Monte, corso Vittorio Emanuele 334/ter

Il gioiellinodi A. Molaioli (Italia,
2011)

Gianluca Gentile

Paolo Ghionni

Mercoledì 3 dicembre 2014

ore 16,00
Sala degli Angeli, via Suor Orsola 10

Il Kafka di Antonio Cassese. Dibattito
su Kafka e i giuristi

Marino Freschi

Gennaro Carillo

Mercoledì 10 dicembre 2014

ore 16,00
Aula 1, Convento di Santa Lucia al
Monte, corso Vittorio Emanuele 334/ter

Promised Landdi G. Van Sant (USA, 2012)

Ernesto Aghina

 

Per
informazioni

Segreteria Didattica

Facoltà di Giurisprudenza

corso Vittorio Emanuele 334/ter

tel. e fax 081.2522.630; 081.2522.617 e-mail

La partecipazione agli incontri consente il
riconoscimento dei crediti formativi professionali da parte dell’Ordine degli
Avvocati.

 

* Imago imperii, l’Archivio di Iconologia Politica del
CRIE (Centro di Ricerca sulle Istituzioni Europee), è una videoteca di settore
sulle rappresentazioni del potere e della giustizia. Raccoglie 1600 titoli in
formato Blue Ray DVD o Beta, privilegiando il cinema sperimentale europeo e
americano, quello dell’area mediterranea (anche africana) e orientale (est
Europa, Giappone, Cina, India, Indocina).

Fuente: http://www.unisob.na.it/eventi/eventi.htm?vr=1&id=13342

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Antonio
Cassese

Kafka è
stato con me tutta la vita

Il Mulino, Bologna, 2014, 144
pp.

ISBN: 9788815250810

Antonio Cassese non era un lettore qualunque di Kafka,
ma un giudice che aveva esperienza del male e che continuava a credere nella
legge e nel diritto, pur guardando «con angoscia le forze che si oppongono
all’esercizio della giustizia e soprattutto l’istinto di sopraffazione sempre
latente e pronto a esplodere in qualsiasi momento della vita e della
storia».
In questo libro egli apre ai lettori il suo «retrobottega», quel
luogo e quel tempo di riposo mentale dalle fatiche quotidiane condiviso con le
letture preferite. Da queste letture e dal confronto, continuo e sempre
rinnovato, con lo scrittore praghese, costruisce tanti piccoli saggi,
riflessioni sulla vita e sulla letteratura, sui mali dell’umanità, da lui così
conosciuti per professione, accompagnandoci nei suoi incontri con personaggi
veri o ideali. L’uomo e il giudice, lo studioso e il lettore si confondono in
queste pagine in cui emerge una vita intera spesa a comprendere l’umanità, nel
tentativo di aiutarla a uscire dai suoi mali oscuri.
Un percorso intenso e intimo che si chiude con due
racconti, «L’isola dei Bianconi» e «Getsemani», con cui
Cassese affronta e spiega la sua ultima battaglia, quella con la malattia.

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PROCESSO
AL SIGNOR K.

R2 Cultura

Magistrato nelle
corti internazionali ed esperto di diritto, Antonio Cassese era anche uno
studioso del grande scrittore ceco Ora i suoi appunti e diari diventano un
libro Eccone un estratto

 

“Imputato
Kafka, lei è buono Io la assolvo dal senso di colpa”

ANTONIO CASSESE

Il Processo di
Kafka è la storia, si sa, di un impiegato di banca che una mattina viene
arrestato da due rappresentanti della legge, che non sanno dirgli di cosa è
accusato né chi lo processerà. Egli rimane a piede libero per subire un
processo davanti ad autorità sconosciute e irraggiungibili. Il libro descrive i
suoi sforzi per capire di quali colpe è accusato e per difendersi in qualche
modo, avvicinando diverse persone variamente legate alla legge. Alla fine,
senza essere mai trascinato in giudizio davanti ad un tribunale, viene
prelevato a casa sua da altri due rappresentanti della legge, portato in una
cava abbandonata e triste e ucciso con «un lungo coltello da macellaio affilato
da tutte e due le parti». Tutto il romanzo è costruito come un insieme di
incubi, in cui l’impiegato di banca, oppresso da un angoscioso sentimento di
colpa, si trova di fronte ad una serie infinita di autorità nascoste e
impenetrabili, che agiscono per motivi imprecisabili e con modalità arcane. Il
nodo o conflitto essenziale di cui parlavo prima è dunque stemperato e reso
metafisico in un susseguirsi di vicende in cui lo scontro tra l’individuo e
l’autorità è diventato esistenziale e nel contempo polivalente, ambiguo ed
universale.[…] Ma la problematica più
specifica la ritroviamo almeno in tre momenti diversi del romanzo. Il primo è
all’inizio, quando i due guardiani della legge vengono ad arrestare K. e lui
non resiste. In quel momento K. si chiede nondimeno se respingere con forza,
uscendo dall’appartamento, quel tentativo con tutta probabilità illegale di
dichiararlo in stato di arresto: «Forse in tutto l’affare sarebbe stata questa
la soluzione più semplice, di spingere cioè le cose agli estremi». K. ritorna
sul punto parlando con la signora Grubach: se avesse subito tagliato corto e
fosse subito uscito dalla sua camera da letto senza farsi sbarrare la strada
dai due uomini della legge, forse avrebbe troncato sul nascere quel sopruso:
«Insomma, se avessi agito ragionevolmente, non sarebbe successo nulla e ogni
cosa sarebbe stata soffocata». Ecco qui il motivo della possibile ribellione
alla prepotenza e all’arbitrio, ribellione che in teoria avrebbe potuto
costituire un modo radicale di troncare il problema, ma che non ha potuto
realizzarsi per l’incapacità di K. (il quale, per giustificare la sua
inettitudine alla rivolta si affretta a dire alla signora Grubach: «Ma si è
così poco preparati»).

Il motivo della rivolta ritorna nell’episodio
dell’incontro con il giudice istruttore nella sala delle assemblee, quando K.
urla: «Sono giunto alla fine», batte il pugno sul tavolo e fa una lunga arringa
contro il tribunale, al termine della quale, prima di aprire la porta e uscire,
esclama rivolto agli uomini della legge: «Straccioni, faccio a meno di tutti i
vostri interrogatori». Sorprende questa risolutezza e questa forza di opporsi
agli architetti ed esecutori dell’arbitrio. Ma il seguito del romanzo mostra
bene che si trattava solo di conati di ribellione, perché poi K. riprende i
suoi tentativi di comprendere perché lo vogliono processare e di fatto si
sottopone all’autorità imperscrutabile della legge. Tanto è vero che più tardi
sarà il custode del tribunale a dirgli, «con uno sguardo pieno di fiducia» (mit
einem zutraulichen Blick) ma, forse, in realtà con scherno: «Si ha sempre
voglia di ribellarsi» (Man rebellierteben immer).

Lo stesso motivo torna ancora nel capitolo 5, quando
K. trova i due guardiani della legge nello sgabuzzino della banca, mentre
vengono frustati da un terzo perché K. si era lamentato di loro con il giudice
istruttore. K. cerca di sottrarli al frustatore tirando fuori il portafoglio ed
offrendogli una buona mancia se li lasciava liberi. Ma fa tutto ciò con
imbarazzo: mentre offriva la mancia «non guardava in viso il frustatore» e gli
dice, con aria losca: «È sempre meglio per tutti combinare affari di questo
genere ad occhi bassi». Ma il frustatore rifiuta, temendo di essere denunziato
anche lui al giudice istruttore. Al che K. replica che non voleva affatto che i
due fossero puniti, altrimenti non starebbe ora a chiedere di lasciarli liberi;
se avesse saputo che sarebbero stati puniti non avrebbe fatto i loro nomi al
giudice istruttore, perché essi non sono colpevoli — «colpevole è
l’organizzazione, colpevoli sono gli alti impiegati». Ma il frustatore non cede
e continua a colpire i due. Dopo di che K. lascia il ripostiglio e si
allontana, abbandonando i due alla loro sorte.Ma resta inquieto: «Lo
tormentava il fatto di non essere riuscito ad impedire quelle frustate; ma se
non era riuscito non era colpa sua». E a questo punto prospetta a se stesso
tutta una serie di sofismi per giustificare la propria codardia e spostare la
colpa sugli altri.

In questo episodio
K. cerca dunque di aiutare gli altri, ma non ci riesce, e conclude accettando
lasconfitta ed anche autogiustificandosi con la riflessione che non era colpa
sua — mentre in realtà sa benissimo, e lo ha ammesso prima, che se quei due
sono picchiati è perché lui aveva fatto i loro nomi al giudice istruttore. K. è
colpevole delle sofferenze degli altri, ma non ha né la forza né il coraggio di
arrestare la mano del persecutore; cerca solo di corromperlo con modi loschi,
di cui si vergogna; non ci riesce e finisce per fuggire, autoconvincendosi che
non è in realtà colpevole.

In questo episodio c’è dunque l’accettazione dolorosa
sia della colpa sia della propria incapacità di reagire all’arbitrio se non con
modi meschini e inefficaci. Tutta la vicenda del frustatore e dell’incontro
nello sgabuzzino esprime e simboleggia la definitiva, totale e irrimediabile
sconfitta di K.[…] Sembrerebbero dunque chiare le radici più nascoste del
desiderio di Kafka di aiutare gli altri ed in particolare di aiutarli ad
opporsi all’oppressione. Quel che ora vorrei notare è che questo desiderio non
si manifesta solo nella narrativa enel sogno, ma anche nella vita quotidiana
dello scrittore.E si manifesta soprattutto in due modi, che spesso si intrecciano. Anzitutto
nella scelta del lavoro. Kafka, dopo essersi addottorato in giurisprudenza,
entra nel 1907, a
24 anni, alle Assicurazioni Generali.Ma
è un lavoro monotono e burocratico, per cui sente che diventerà «a poco a poco
di legno», come scriverà in una lettera ad un amico. Dopo nove mesi lascia
dunque quel lavoro ed entra all’Istituto di assicurazioni contro gli infortuni
dei lavoratori del Regno di Boemia, dove lavorerà dal 1908 al 1922, quando va
in pensione anticipata, per ragioni di salute. Questa scelta dello scrittore
non è stata mai studiata a fondo. Credo che essa non fosse solo dettata dalla
necessità di trovare un gagnepain, ma sia in larga misura legata a
motivazioni intime. All’Istituto egli infatti lavorava soprattutto nel campo degli
indennizzi per gli infortuni degli operai e della propaganda per la prevenzione
degli infortuni. Di fatto Kafka si occupò in numerosi casi di operai feriti o
mutilati da macchine di lavoro. È evidente che in questo lavoro egli riusciva
ad appagare il suo desiderio di proteggere i deboli, di soccorrere i più
sfortunati. […] L’altro modo per soddisfare il desiderio di aiutare gli altri
era quello, minuto e sporadico, di fornire un piccolo ristoro, attraverso un
po’ di denaro, a coloro che si trovavano in ristrettezze. Benché avesse un
rapporto complesso con il denaro, secondo quanto ci riferiscono lo stesso
scrittore (Lettera al padre) e Milena, già da piccolo Kafka sentì il bisogno
vivissimo di dare un po’ del suo denaro ai più sfortunati. A quanto pare, lo scrittore
era generoso anche con i suoi colleghi. Secondo una testimonianza raccolta da
Wagenbach, un dattilografo dell’Istituto di assicurazioni cui egli dettava le
minute, trovandosi in difficoltà finanziarie, otteneva spesso piccoli prestiti
dallo scrittore, il quale poi ne rifiutava sempre la restituzione, osservando:
«Lei ha bisogno di aiuto, ed io sono in grado di darglielo».

Probabilmente anche
nei suoi rapporti con i mendicanti o i colleghi in difficoltà finanziarie,
Kafka era mosso dal consueto sentimento complicato e contraddittorio. Vedeva in
essi se stesso. Li vedeva bisognevoli di aiuto e incapaci di ribellarsi alla
loro condizione o comunque di sovvertirla. Mutato nomine, de te fabula
narratur: la loro pena era anche la sua, e la molla profonda del suo aiuto era
il sentimento disperato di essere come schiacciato e di non trovare una via
d’uscita. […] Questa motivazione spiega forse anche i limiti dell’«aiutare
gli altri » che possiamo riscontrare in Kafka. Egli era incapace di contribuire
a mutare in modo radicale la condizione dei più sfortunati, che pure tanto lo
turbavano. In un’epoca di grandi sovvertimenti sociali, di ideologie
rivoluzionarie che predicavano il «riscatto degli oppressi», egli non partecipò
a movimenti politici, ad associazioni sindacali o ad organizzazioni volte a
migliorare le condizioni di vita di tanti “diseredati”. Forse contribuirono a
questo atteggiamento la sua indole schiva, il bisogno di rimanere in ombra.
Forse anche una concezione della letteratura che separa la scrittura dal così
detto “impegno sociale”. Ma probabilmente fu decisivo il sentimento radicato
che, così come non c’è salvezza per il singolo (l’uomo Kafka hic et nunc), non
ci possa essere salvezza per la moltitudine.

Antonio
Cassese (1937-2011)

Kafka è stato con me tutta la vita

Il Mulino, Bologna,
2014, 144 pp.

Fuente:
https://mixcelanea.es/iuridisctio/2014/03/processo-al-signor-k.html

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Kafka e il suo giudice

di Enrico Arosio, L’espresso,
21/03/2014

 

Di giorno il
processo a Milosevic.
Di notte gli incubi giudiziari dell’autore praghese. Il sorprendente libro di Antonio Cassese

 

È stato un giurista di rilievo e un gentiluomo. Ha
rappresentato l’Italia negli organismi internazionali dell’Onu. Ha avuto, come
primo presidente del Tribunale penale per i crimini di guerra nell’ex
Jugoslavia, responsabilità immani, tra cui il destino di Slobodan Milosevic.
Antonio Cassese, quand’era ormai condannato dal male che lo portò alla morte,
anziché lasciarci un’autobiografia ci ha lasciato un libro su Franz Kafka.
Il più grande di tutti,
per lui. Il messaggero universale dell’ «incomprensibilità del mondo».
Il titolo commuove: «Kafka è stato con me
tutta la vita».
Lo pubblica Il Mulino grazie alle cure della moglie
Silvia Fano e dei figli Francesco e Teresa nel ricomporre i testi.
La prefazione di Cassese è del 28 agosto 2011, la
scomparsa del 22 ottobre. È un testamento spirituale, ma anzitutto è un regalo,
in questa Italia che si contenta ormai di poco.

«Io ti schianto come un pesce», urlava al figlio Franz
il padre Hermann, che lo dominava in tutto, nel fisico, nel carattere, nel
senso degli affari. Kafka lo subì sempre, e sempre lo giustificò, prendendo su
di sé la colpa anche quando non ne aveva. Gli studiosi hanno interpretato Kafka
usando varie chiavi, dalla psicoanalisi all’ebraismo: visionario angelico,
teologo, simbolista, esistenzialista. Per Cassese, il narratore del
«Processo» è il latore dell’enigma della vita, il «genio», scrive,
che ha saputo «trasformare la sua sofferenza in immagini e situazioni
universali
».

Cassese non è un filologo (pur conoscendo benissimo il
tedesco) e qualche soluzione narrativa è convenzionale. Eppure il suo testo dà
un’emozione profonda per come rivela a sé, e a noi, il fascino di Kafka,
fragile gigante del moderno. La sua testimone preferita è forse Milena
Jesenská, la «fidanzata» platonica. Milena, che morì nel 1944,
disegna un Franz alieno alla realtà quotidiana del denaro, del lavoro, del
successo. Un uomo nudo tra persone vestite, un asceta per il quale il mondo è
un «segreto mistico». La sua paura dell’amore fisico («il coito come punizione
per la felicità di stare insieme», confessa nei «Diari» nel 1913)
infonde un senso di pietà.
Commenta l’autore: all’occhio di uno psichiatra il
soggetto sarebbe «un grave ossessivo». Per Kafka si può dire: «L’enfer c’est
moi».

Cassese la notte studiava le lettere, i biografi, gli
amici della Praga ebraica; sorprendente, per un giudice alle prese, di giorno,
con i crimini atroci della Bosnia o del Darfur. È freddo verso il solito Max
Brod, scrittore «mediocre», sebbene salvatore delle opere di Kafka destinate a
esser distrutte. Riprende invece un giudizio di Franz Werfel del 1934: «Kafka è
un inviato dall’alto, un grande eletto».
Uno dei prescelti «che vedono
sì cose nascoste agli altri ma soffrono anche molto più degli altri». Poi
l’uomo di legge riflette sulla natura umana, ed emerge la sua esperienza del
crimine, individuale e collettivo. Nel capitolo «Del desiderio di aiutare
gli altri» lo sguardo va all’infelicità e alla violenza. Da millenni,
scrive, l’uomo è l’animale aggressivo degli esordi, dominato dall’istinto di
conservazione. L’«homo biologicus» lotta con l’«homo socialis».

Il conflitto è tra «giustizia» e «disciplina». Cassese lo analizza con estrema
finezza intorno al racconto «Il fuochista» (1912), che divenne
l’esordio del romanzo «Il disperso», volgarizzato poi come
«Amerika». È il romanzo dell’innocenza, in cui il sedicenne Karl è
forzato a emigrare in America per espiare una colpa non sua, e affronta il tema
universale dell’incapacità di opporsi al verdetto ingiusto, aiutare la vittima.
Ribellarsi è vano, la giustizia è iniqua.
E il potere? «Fra tutti gli scrittori, Kafka è il più grande esperto del
potere», scrisse Elias Canetti, usando la parola «Macht»
(«potere», ma anche «potenza»). Cassese, che giudicò in
tribunale gli abusi degli eserciti e le uccisioni di massa, su questo rimane in
silenzio.

Fuente:
http://ilmiolibro.kataweb.it/booknews_dettaglio_recensione.asp?id_contenuto=3752406

 

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